martedì 9 maggio 2017

3t-6-La reazione a Cartesio - Pascal e Vico








































La Scienza Moderna

Fra metà del ‘500 e inizio del ’600, cioè all’inizio del Rinascimento considerato comunemente come la fine del Medioevo e l'inizio dell'Età moderna, nasce in Europa la SCIENZA MODERNA, una vera e propria rivoluzione nel modo in cui l’uomo si rappresenta il mondo, la vita e il senso delle cose. Fatto decisivo per la storia dell’occidente e poi di tutto il mondo. È un enorme salto qualitativo. Tutto quanto è accaduto dopo questa svolta epocale influenzerà decisamente la nostra storia e il nostro futuro. 

Come sappiamo la scienza moderna nasce con Galileo Galilei (1564 – 1642) e in seconda battuta con Renato Cartesio (1596 – 1650) che mettono in atto uno sguardo sul mondo completamente nuovo rispetto alla visione metafisica e scientifica che si era formata fino ad allora. Sguardo particolarmente efficace per quanto riguarda il progresso e il benessere che ha portato, ma anche particolarmente violento che cancella intere dimensione e intere sfere dell’essere.


la scienza moderna invita a considerare l’essere, le cose e la natura a sola materia e a solo movimento. La scienza moderna è convinta che ciò che è essenziale è solo ciò che è dimostrabile e misurabile: la materia e il movimento. Rigetta cioè tutto ciò che la metafisica aveva spiegato, tutto ciò che è qualità, che è forma essenziale, che è dimensione metafisica. L’atomismo di Democrito in qualche modo aveva già introdotto questa visione solo materialistica e meccanicistica (cioè riduzionista della realtà), compreso il pensiero. L’anima di Democrito per esempio era vista come composta di atomi particolari e senza dimensioni, ma anch’essi sottoposti alle regole degli atomi della materia. 

Diventano irrilevanti le forme degli oggetti, la meravigliosa armonia del mondo naturale e tutto ciò che non era riducibile al mondo quantitativo, al mondo del “misurabile”, del cieco urto degli atomi fra di loro. La grande metafisica dell’epoca greco cristiana era la metafisica delle forme essenziali, nulla era spiegabile se non attraverso una forma, una essenza, una piena realizzazione della natura dell’oggetto o ente considerato, il suo fine ultimo (forma, fondamento, fine). Quest’idea era fondamentale anche per il pensiero cristiano, perché le forme essenziali erano in ultima istanza pensieri di Dio (sant’Agostino) che crea secondo idee luminose, precise, armoniose che fanno apparire il mondo e le cose come un’opera perfetta, un’opera compiuta, un’opera abitata da una profonda e originaria armonia. In questa visione l’uomo era facilitato nel suo risalire dal mondo (perfetta creatura) a Dio (perfetto creatore). Nello splendore di questa armonia che lega il tutto, che fa della natura e dell’essere un insieme perfettamente proporzionato, gerarchico, dove tutto è abitato dal senso e dalla verità, diventava naturale passare dal mondo a Dio, dalla natura e dalla sua perfezione a Dio.

In questo mondo ormai rinascimentale sorge ora uno sguardo nuovo che rimuove, anche violentemente, tutto ciò che era considerato qualità, causa finale e forma essenziale. Le cose, la natura, il mondo, gli animali, lo stesso corpo dell’uomo, non hanno più alcuna forma, alcuna essenza che palpita in esse, che le fa vivere, che le struttura, che dona agli enti l’unità.

Allora se c’è solo la materia, se considero come vero e come conoscibile solo ciò che può essere misurato, che è esteso nello spazio, che è materiale, la conseguenza è l’impossibilità di ammettere veramente la natura individuale delle sostanze e le loro forme. 

Esiste solo materia e movimento. Materia, immotivata e inspiegabile, priva di senso e di verità intima e ontologica, cioè presente dentro le cose. Movimento, dice Cartesio, che Dio ha impresso al mondo, come una spinta iniziale che poi prosegue inerzialmente come in uno spazio privo di gravità, producendo i pianeti, gli astri, gli enti naturali, senza quindi una reale presenza di Dio nella storia dell’universo e dell’uomo.

Questa nuova visione materialista, riduzionista, negatrice delle forme e delle essenze prende il nome di MECCANICISMO e dà una nuova definizione di ragione. Una ragione che è definibile ora come RAGIONE CALCOLATORIA. 

Ragione che non è più “sensorio della trascendenza”, come affermerà Eric Voegelin (1901 – 1985), cioè non è più ciò che in noi è aperto originariamente al tutto, al senso ultimo delle cose, alla trascendenza dell’assoluto che irrompe nel mondo e nel presente. Ragione che non è più organo votato ad aprirsi al tutto, all’assoluto, a Dio.

La ragione quindi diventa solo uno strumento di calcolo esatto che mette in trasparenza le cose, cioè la materia e i rapporti fra le cose: le leggi scientifiche. È una ragione che chiude le porte a tutto ciò che è metafisica, che è morale, che è spirituale, che è teologia, che ci avvicina al mistero.


Blaise Pascal, bambino precoce, fu istruito dal padre. I primi lavori di Pascal sono relativi alle scienze naturali e alle scienze applicate. Contribuì in modo significativo alla costruzione di calcolatori meccanici e allo studio dei fluidi. Egli ha chiarito i concetti di pressione e di vuoto per ampliare il lavoro di Torricelli. Pascal scrisse importanti testi sul metodo scientifico. A sedici anni scrisse un trattato di geometria proiettiva


Nel 1652 i medici gli consigliarono per la sua salute cagionevole, una vita meno ritirata e più mondana. Frequentò allora feste e salotti e persone importanti, ma ben presto si annoiò di questo. 

Lavorò con Pierre de Fermat sulla teoria delle probabilità che influenzò fortemente le moderne teorie economiche e le scienze sociali

Dopo un'esperienza mistica seguita ad un incidente in cui aveva rischiato la vita, nel 1654, abbandonò matematica e fisica per dedicarsi alle riflessioni religiose e filosofiche. Morì due mesi dopo il suo 39º compleanno, nel 1662, dopo una lunga malattia che lo affliggeva dalla fanciullezza.

Cartesio (1596-1650) fu il bersaglio preferito degli scritti di Pascal che aveva conosciuto nel 1647 a Parigi. Pascal non gli perdonava, infatti, quel suo mondo razionale, e il suo ridurre la funzione di Dio a quella di un semplice creatore di funzioni matematiche o di un ordinatore degli elementi. 

Per Pascal l'organo fondamentale era l'intuizione, o cuore (coeur), cui la ragione, o mente (raison), doveva sottoporsi. I grandi misteri della religione non erano infatti risolvibili con i modelli matematici-razionali, ma solo usando il sentimento, l'esperienza, la storia e le contraddizioni umane.

« Ci fu un uomo che a 12 anni, con aste e cerchi, creò la matematica; che a 16 compose il più 

dotto trattato sulle coniche dall'antichità in poi; che a 19 condensò in una macchina (la Pascalina) una scienza che è dell'intelletto; che a 23 dimostrò i fenomeni del peso dell'aria ed eliminò uno dei grandi errori della fisica antica; che nell'età in cui gli altri cominciano appena a vivere, avendo già percorso tutto l'itinerario delle scienze umane, si accorge della loro vanità e volge la mente alla religione; [...] che, infine, [...] risolse quasi distrattamente uno dei maggiori problemi della geometria e scrisse dei pensieri che hanno sia del divino che dell'umano. Il nome di questo genio è Blaise Pascal. » 
(tratto da: François-René de Chateaubriand, “Il genio del Cristianesimo” di D. Bovo - EMP - 1995)

Pascal e la Scienza Moderna

Pascal entra in scena nel momento in cui questa scienza moderna sta esplodendo. Lui stesso è un grandissimo scienziato. Non ha grandi base filosofiche, ma una grande passione per la matematica presa dal padre e una particolare attitudine per la scienza. Questo lo porta ad inventare nuove discipline come la statistica, il calcolo delle probabilità, l’idrostatica, lo studio del vuoto. È un genio matematico assoluto.

Inventa l’intelligenza artificiale, la Pascalina, la prima vera macchina calcolatrice della storia e crea le premesse per il calcolo infinitesimale di Newton. Scopre una legge della fisica dei fluidi che prenderà il nome di principio di Pascal o legge di Pascal. È una legge che stabilisce che la pressione esercitata in un punto qualsiasi di un fluido si trasmette in ogni altro punto del fluido con la stessa intensità, indipendentemente dalla direzione. Tale legge è stata enunciata nel trattato del 1653 “Sur l'equilibre des liqueurs” con il famoso esperimento della botte del 1646. Nell'esperimento, Pascal inserì un tubo verticale lungo 10 m in una botte piena d'acqua. A quel punto Pascal iniziò a versare l'acqua nel tubo verticale fino a riempire il medesimo tubo e osservò un aumento della pressione, che raggiunse una intensità tale da rompere la botte.


Dopo la conversione, continua a fare lo scienziato ma comincia a sferrare delle critiche molto severe a Cartesio, come questa: “Cartesio, inutile ed incerto”. Inizia a questo punto una seconda stagione culturale di Pascal mirata a demolire e smontare la macchina della nuova visione del mondo e dell’uomo che Cartesio aveva costruito.

Cartesio si era occupato molto a fondo di passioni e di corpo umano (medicina). Il corpo umano, come per le passioni e tutta la vita corporea sono sottoposte da Cartesio ad un violento processo riduzionistico. Sono cioè spiegate solo materialisticamente. Nasce quindi una visione di uomo incompatibile con la visione cristiana. Un uomo il cui corpo è stranamente separato dall’anima. Questo è il dualismo antropologico cartesiano che spazza via tutta la tradizione metafisica e antropologica cristiana.

Pascal aggredisce questo paradigma, ma non lo fa sistematicamente, cioè con l’obiettivo di sgretolare pezzo per pezzo il nuovo ottimismo razionalista dei suoi contemporanei, ma aprendo uno sguardo sull’uomo originalissimo e profondissimo. Pascal è un grande pensatore soggettivo, alla maniera di Socrate e di sant’Agostino che producono una filosofia dove soggetto e oggetto dell’azione filosofica coincidono perché interrogativi e risposte nascono dal di dentro per problemi sentiti sulla propria pelle e risolti con decisioni elaborate dalla propria mente. Gli interessa infatti essere in pace, essere felice, comprendere il senso della sua vita. 

Il suo pensiero così vivo, così interiore, così intenso, che emerge preponderante, diventa inevitabilmente un attacco a Cartesio.

“Il silenzio di questi spazi infiniti mi riempie di sgomento”. Con questa frase Pascal esprime il suo disagio nell’aderire alla nuova scienza materialista come scienziato e come uomo, ma sente che questo lo riempie di sgomento, perché per esempio il cielo che è sempre stato l’immagine del divino non gli rappresenta più una sorta di volta protettrice o di congiunzione fra l’uomo e Dio, ma un angosciante cosa senza vita, senza sentimenti, senza calore, infinito e insensato, senza nulla di umano e di divino, solo materia. Al mondo ora ci sono solo cose. 

Pascal sente che questo mondo uscito dalla rivoluzione scientifica è un mondo cieco, un mondo opaco, un mondo insignificante. Posso capirlo, posso studiarne le leggi, vederne la struttura, capirne i meccanismi di funzionamento, ma non ha più senso. Quanto più lo comprendo in termini tecnici e scientifici, tanto più dilegua la sua capacità di darmi un significato, di parlare al mio cuore, di parlare alla mia mente, di alimentare la mia vita spirituale.

Pascal intuisce che la disciplina di cui lui pure ha concorso a costruire e addirittura in modo esemplare, non può risolvere i problemi più profondi dell’uomo e dire all’uomo qual è il senso della sua vita. Anzi già vede che l’avanzata del l’illuminazione scientifica del mondo, produce una crescente cataratta spirituale, morale ed esistenziale.

“La scienza non può dirmi la cosa più importante, non può dirmi perché abito questa terra, che senso ha il mio faticoso vivere, che senso ha la sofferenza, che senso ha la morte”. 

Pascal e il Giansenismo.

A Port Royal Pascal aveva conosciuto l’esperienza del giansenismo che innegabilmente gli ha lasciato un segno. Il giansenismo si distingue per la sua produzione di due polarità molto forti, il bene e il male, senza chiaroscuri.

Il giansenismo è una dottrina elaborata dal vescovo Giansenio (1585-1638), il quale fondò la sua costruzione teologica sull'idea che l'uomo nasce essenzialmente corrotto e quindi destinato a fare necessariamente il male, e che, senza la grazia di Dio, l'uomo non può far altro che peccare e disobbedire alla sua volontà, e che alcuni uomini sono predestinati alla salvezza mentre altri no.

Giansenio intese ricondurre il cattolicesimo a quella che riteneva la dottrina originaria di sant’Agostino, e che vedeva in contrasto con la teologia sostenuta dall'ordine dei gesuiti che concepiva la salvezza come sempre possibile per l'uomo dotato di buona volontà, così com'era stato fissato dal gesuita spagnolo Luis de Molina (1535-1600).

La posizione molinistica era rilevante anche nel contesto della pratica di proselitismo gesuita, tesa a incoraggiare l'ingresso del maggior numero di persone nel seno della Chiesa, ritenuta da Giansenio una debolezza e una ingiustizia (troppa misericordia?).

Per la Chiesa cattolica la dottrina giansenista si poneva in posizioni tendenzialmente "eretiche" e vicine al protestantesimo, per il fatto che eliminava quasi del tutto il libero arbitrio dell'uomo di fronte alla grazia divina, favorendo l'idea di una salvezza predestinata.

I Pensieri

Lasciando da parte quanto il giansenismo ha influito sul suo pensiero, Pascal ci dice cose che nessuno aveva saputo dirci prima di lui e così bene. Con la sua mente esatta, da matematico, essenziale, chiaro, elabora la sua opera “I Pensieri” nella quale ci parla di “potenze di errore”, potenze che fanno sbagliare l’uomo e lo inducono all’errore, ci parla di immaginazione che si sostituisce alla ragione, cioè le nostre fantasie che prendono il posto della realtà. Il costume o la moda che ci provoca associazioni casuali con modelli di comportamento lontani da quelli che Dio ha pensato per l’uomo.

Secondo alcuni studiosi, Pascal aveva in mente di scrivere un'immensa opera, una Apologia del Cristianesimo (l'apologetica è una delle scienze sacre, che si propone la difesa, cioè l'apologia del Cristianesimo contro gli attacchi degli avversari) di cui, a suo dire, chiunque l'avesse letta per intero avrebbe dovuto infine confessare la sua fede o ammettere la sua completa follia. Di questo ambizioso progetto, incompleto a causa della sua morte prematura a soli trentanove anni, restano in realtà dei frammenti sparsi, intitolati Pensieri (in francese, Les pensées), pubblicati postumi, nel 1670. 

In quest’opera Pascal inizia a scendere nell’abisso del cuore dell’uomo. Vede i suoi simili assaporare il trionfo della scienza che sembra aprire le porte alla felicità e alla soluzione di tutti i problemi. Si dedica allora a esplorare i sentieri della povertà e della miseria dell’uomo. 

Pascal è un durissimo denunciatore dell’ “amor proprio” che ci porta ad odiare la verità, ad essere falsi con gli altri per ottenerne il consenso, perché temiamo che venga ferito l’amore di noi stessi. Pascal poi riflette e ci fa riflettere, sulla miseria dell’uomo. Ecco alcuni passi da “i Pensieri”.

In altre parole la mia grandezza è proporzionata al mio riconoscermi umilmente fatto tutto solo di miseria, quanto più mi riconosco misero, tanto più sono grande.

Per Pascal è importantissimo il tema del peccato originale. Non saremmo così pieni di desideri, di senso di insoddisfazione, di consapevolezza della nostra povertà e fragilità se il nostro modo di essere fosse, per così dire, naturale, come se fossimo sempre stati così.

La nostra sofferenza, la nostra sete di verità è la traccia del nostro originario stato di un rapporto più intenso e più puro con la verità stessa, prima della caduta. La nostra sofferenza, ogni sofferenza, è l’eco del peccato originale. I nostri desideri, turpi o elevati, sono l’eco del peccato originale. 

L’uomo così misero vuole dimenticarsi della sua miseria, cerca allora di “divertirsi” (dal latino divertere: volgersi altrove, togliersi via da se stessi). 

“Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo senza affari e senza passioni”.

L’uomo vuole dimenticarsi di se, ha orrore della propria dignità, teme una vita veramente spirituale, cerca tutto fuorché un intimo autentico raccoglimento, un’intima compunzione (afflizione, mortificazione, umiltà, reverenza).

Questo universo che inghiotte l’uomo, nessun greco la avrebbe mai detto. L’infinito è un tema che ha fatto irruzione in matematica, in astronomia, ma anche in campo morale nel ‘600. Tutto il pensiero occidentale da Pascal in poi è il dramma sulla riflessione per come coniugare e portare pace tra finito e infinito. Ecco la modernità di Pascal che si sente solo un punto e che sente come terribile questo universo così immenso.

Dunque, la miseria dell'uomo, secondo Pascal, è di essere senza Dio; la sua natura è decaduta dalla natura immortale e divina in cui era nato, a causa del peccato originale:

” Dio ha creato l'uomo con due amori, l'uno per Dio, l'altro per se stesso; ma con questa legge: che l'amore di Dio doveva essere infinito, cioè senza altro limite che Dio stesso, e l'amore di se stesso doveva essere limitato, e riferito a Dio. L'uomo, in questa condizione, non solo si amava senza peccato, ma non poteva amarsi che senza peccato. Poi, venuto il peccato, l'uomo perdette il primo di questi due amori, ed essendo rimasto solo l'amore di sé in quella grande anima capace d'un amore infinito, l'amor proprio si è esteso e diffuso nel vuoto che l'amore di Dio ha lasciato; e così ha amato solo se stesso, e tutte le cose per se stesso, cioè infinitamente. Ecco l'origine dell'amor proprio, il quale era naturale in Adamo, e giusto nella sua innocenza; ma è diventato colpevole e smodato, in seguito al peccato”. (Blaise Pascal, lettera inviata alla sorella in occasione della morte del padre, 17 ottobre 1651) 

L'uomo, abbandonato col peccato l'amore per Dio, ha nell'anima uno spazio vuoto di dimensione infinita (prima occupato dall'amore per Dio), che tenta di riempire con l'amore proprio e verso i beni terreni, che vengono quindi investiti di amore infinito che non sono in grado di soddisfare, essendo finiti. Da ciò deriva il senso di finitezza e incompletezza che, secondo Pascal, fa parte della natura umana. 

Solo l'infinita pienezza del divino può riempire l'infinito vuoto dell'umano, e, tra le tante, solo la religione cristiana, secondo Pascal, ci conduce a tale idea di duplicità e di contraddizione, che è alla base delle radici dell'uomo. L'unico modo per sciogliere tale, inestricabile "nodo" è umiliarsi, rinnegando la propria natura e ponendosi di fronte a Dio passivamente, liberi dalla propria volontà per accogliere la Sua. Dunque, le dimostrazioni razionali dell'esistenza di Dio, per Pascal, sono insensate, poiché: 

« [...] Il Dio dei Cristiani non è un Dio semplicemente autore delle verità geometriche e dell'ordine degli elementi, come la pensavano i pagani e gli Epicurei. [...] il Dio dei Cristiani è un Dio di amore e di consolazione, è un Dio che riempie l'anima e il cuore di cui Egli s'è impossessato, è un Dio che fa internamente sentire a ognuno la propria miseria e la Sua misericordia infinita, che si unisce con l'intimo della loro anima, che la inonda di umiltà, di gioia, di confidenza, di amore, che li rende incapaci d'avere altro fine che Lui stesso. [...] »(Blaise Pascal, Pensieri, 556) 

Con queste parole rimarcava la differenza fra un Dio che è pensato solamente come Architetto dell'universo, come Ente meccanico e non come Essere libero, Padre degli uomini e nostro Salvatore, che opera nella storia per amore; in Pascal vi è anche un riferimento ad un'esperienza comune ad altri filosofi (come Plotino), oltre che a religiosi, di un contatto con la divinità, di cui parlerà ampiamente. Inoltre, dopo la morte fu rinvenuto un suo scritto cucito nel suo vestito che ci documenta il suo spirito. Ecco alcune frasi: 

« Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe. Non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Sentimento. Gioia. Pace. Dio di Gesù Cristo. [...] ». (Blaise Pascal, Memoriale).

Pascal è molto sordo alle prove tradizionali dell’esistenza di Dio. Dice che al massimo ci rendono deisti, ma allora il cristianesimo è già perduto, perché il deismo considera Dio solo con gli attributi che ci indica la sola ragione naturale a prescindere da qualsiasi rivelazione. (John. Locke – “Ragionevolezza del cristianesimo” - Sabetti).

“Per il cristianesimo l’uomo non è solo ragione, né solo sentimento, è l’unione di queste due dimensioni. La testa deve riflettere con lucidità, ma il cuore deve essere riscaldato: la devozione a Maria […] assicura alla fede la sua dimensione umana completa […] cioè la convivenza dell’indispensabile ragione con le altrettanto indispensabili “ragioni del cuore” come direbbe Pascal”. (Joseph Ratzinger – “Rapporto sulla fede” pag. 108)

“Ogni giorno ci imbattiamo nel mondo del visibile: esso ci invade [ci assale con i suoi mass media] in tutte le circostanze della vita quotidiana, con una potenza tale che siamo tentati di pensare che non ci sia altro che questo. Ma in realtà, l’invisibile è più grande e vale di più di tutto il visibile. Una sola anima – dice una meravigliosa espressione di Pascal – vale più di tutto l’universo visibile”. (Joseph Ratzinger – “Dogma e predicazione” pag. 305)


Famoso è il ragionamento di Pascal sulla cosiddetta scommessa sull'esistenza di Dio:
· Se io scommetto a favore dell'esistenza di Dio e Dio c'è, ne ho un guadagno eterno
· Se io scommetto a favore dell'esistenza di Dio e Dio non c'è, non ci perdo
· Se io scommetto contro l'esistenza di Dio e Dio c'è, ne ho una perdita eterna
· Se io scommetto contro l'esistenza di Dio e Dio non c'è, non ci perdo né ci guadagno

Nel caso di scommessa contro, c'è un'ipotesi di perdita eterna, quindi la saggezza, secondo Pascal, consiglia di scommettere a favore, perché c'è un'ipotesi di vincita, o, nel peggiore dei casi, non si perde nulla.

Pascal afferma che bisogna, dopotutto, "scommettere" sull'esistenza di Dio. Bisogna, cioè, decidere di vivere come se Dio ci fosse o come se Dio non ci fosse; non si può non scegliere, poiché il non scegliere è già una scelta. Ovvero, "scommettendo" che Dio non esiste, non si vince nulla, ma si perde tutto (cioè il bene finito); al contrario, "scommettendo" che Dio esiste si vince tutto (cioè la beatitudine eterna ed infinita) e non si perde nulla; ed il fatto che la scommessa a favore di Dio è totalmente ed infinitamente propizia e vantaggiosa a coloro che la compiono, ciò significa che è fondata, e diventa dunque la scommessa stessa una "prova" di tale esistenza divina, e dunque la "vittoria" della scommessa è nella scommessa stessa, che in tal modo non è più scommessa, ma è già vittoria certa.

Possiamo aggiungere che se Dio c’è e scommetto su di lui, vivendo da buon cristiano, vinco tutto, vinco la vita eterna, una vita di pace, di beatitudine. Se Dio non c’è ed io scommetto su di Lui, non perdo nulla, perdo il finito. Il finito è una nullità rispetto all’infinito. Conclusione non ha senso se non scommettere su Dio. La ragione è obbligata a riconoscere che val la pena di scommettere su Dio.

I principali e più accreditati commentatori pascaliani (Jacques Chevalier, Valensin, Brunet, Lachelier) gli hanno attribuito un notevole valore apologetico. Essi sostengono infatti che la scommessa è meno bassa e puerile di quanto sembri: come Pascal stesso spiega, lo scommettere sull'esistenza di Dio non significa arrischiarsi in una cosa incerta (come succede in una qualsiasi scommessa), in quanto la posta in palio non è una quantità e una qualità numerabile (e dunque finita), bensì una quantità e una qualità innumerabile e infinita, ossia l'eternità e la beatitudine. Queste rendono la scommessa non già più tale, ma certezza della vittoria, e dunque vittoria stessa. In altre parole, scommettendo sull'infinito si ha la certezza di vincere.


“Io non so pregare”, risposta di Pascal “Piega la macchina, mettiti in ginocchio, fa gesti che faresti se tu avessi fervore e il fervore giungerà” (fervere dal latino, bollire, fermentare, lasciarsi coinvolgere emotivamente davanti alla grandezza di Dio e alla propria miseria)

Sir Isaac Newton (1642 – 1727)

Sir Isaac Newton è considerato uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. È stato un matematico, un fisico, un astronomo, un teologo e un alchimista inglese. Fu Presidente della Royal Society.

Noto soprattutto per il suo contributo alla meccanica classica — molti hanno presente l'aneddoto di "Newton e la mela" — Isaac Newton contribuì in maniera fondamentale a più di una branca del sapere. Pubblicò i Philosophiae Naturalis Principia Mathematica nel 1687, opera nella quale descrisse la legge di gravitazione universale e, attraverso le sue leggi del moto, stabilì i fondamenti per la meccanica classica. Newton inoltre condivise con Gottfried Wilhelm Leibniz la paternità dello sviluppo del calcolo differenziale o infinitesimale.

Newton fu il primo a dimostrare che le leggi della natura governano il movimento della Terra e degli altri corpi celesti. Egli contribuì alla Rivoluzione scientifica e al progresso della teoria eliocentrica. A Newton si deve anche la sistematizzazione matematica delle leggi di Keplero sul movimento dei pianeti. Oltre a dedurle matematicamente dalla soluzione del problema della dinamica applicata alla Forza di gravità (problema dei due corpi) ovvero dalle omonime equazioni di Newton, egli generalizzò queste leggi intuendo che le orbite (come quelle delle comete) potevano essere non solo ellittiche, ma anche iperboliche e paraboliche.

Isaac Newton occupa una posizione di grande rilievo nella storia della scienza e della cultura in generale. Il suo nome è associato a una grande quantità di leggi e teorie ancora oggi insegnate: si parla così di dinamica newtoniana, di leggi newtoniane del moto, di legge di gravitazione universale. Più in generale ci si riferisce al newtonianesimo come a una concezione del mondo che ha influenzato la cultura europea per tutto il Seicento.

Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da una famiglia di condizione modesta. Intraprese studi umanistici e tra il 1686 ed il 1695 visse nel castello di Vatolla in qualità di precettore dei figli del marchese Rocca, della cui ricca biblioteca approfittò per approfondire la propria cultura. Nello stesso periodo si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Napoli, dove si laureò tra il 1693 ed il 1694.

L'anno successivo tornò a Napoli al fine di esercitare l'avvocatura. Quattro anni più tardi ottenne la cattedra di retorica presso l'università della sua città, cattedra che tenne fino alla morte, avvenuta nel 1744. Durante tutta la sua esistenza i suoi scritti conobbero una diffusione molto limitata. 

Finché il Vico fu in vita, il valore della sua opera, tranne che nella città che gli diede i natali, fu misconosciuto e si iniziò ad apprezzarlo maggiormente soltanto fra l'Ottocento e il Novecento. Affermatasi la fama del pensiero vichiano, esso fu conteso dalle più disparate correnti filosofiche: 

1. dal pensiero cristiano (nonostante l'iniziale rifiuto), 
2. dagli idealisti , 
3. dai positivisti e 
4. dai marxisti.

Giambattista Vico viene un secolo dopo Pascal, ma conosce bene Cartesio e la tradizione di pensiero che si è aperta dopo di lui. È molto critico nei suoi confronti. Queste critiche hanno una straordinaria importanza ed ancor più una utilità ancora attuale.
Scrive nel 1725 “la Scienza nuova” che è il suo testo più importante, ma così moderno da non essere capito dai suoi contemporanei e che è già critico anche nei confronti del nascente illuminismo.


La fisica di Newton, il più grande matematico e scienziato moderno, genera un enorme fascino per la scienza che sembra poter spiegare tutto in termini matematici. Sorge l’idea che la potenza, la efficacia, la chiarezza, la bontà, l’utilità e la incontrovertibilità della scienza naturale (cioè nessuno può dire non sono d’accordo con quanto dimostrato dalla scienza) e dei suoi metodi siano in grado di dare risultati palesemente buoni e di spiegare anche altre discipline dell’ambito umano come la morale, la teologia, la pedagogia, le diplomazia, la storia, l’estetica, la politica, ecc..

Questi argomenti sono all’epoca così affascinanti che se ne discute nei circoli culturali, come nelle bettole dei mercanti e del popolino, ma anche con grande attenzione e interesse da parte della nobiltà e del Clero, a partire dapprima dall’Inghilterra e poi dalla Francia, dall’ Italia e da tutta l’Europa.

Nasce qui il vero e proprio illuminismo (a partire dal 1750 circa), cioè il concetto di “Ratio calculatoria”, cioè della possibilità che la ragione umana, essenzialmente nella sua espressione matematica, possa razionalizzare ogni cosa, dar ragione di ogni cosa e liberarsi di concetti e idee che, non potendo essere spiegati, misurati e calcolati matematicamente erano quindi ritenuti ininfluenti o addirittura dannosi perché inquinanti la realtà. In altre parole l’illuminismo si illude di poter spiegare tutto utilizzando la sola “Ratio calculatoria”, certamente affascinante, interessantissima e risolutrice di molti problemi, ma non applicabile a tutto ciò che esiste nella realtà umana. “Ratio calculatoria” che è una parte estremamente ristretta rispetto alla filosofia classicamente intesa e sviluppata dalla metafisica di Aristotele e di san Tommaso.

Questa visione ha generato e genera dei mostri, perché esilia tutto ciò che sfugge alla riduzione calcolatoria, matematichezzante della scienza e lo archivia nel Mito, nella favola, nell’inaccettabile residuo di un passato che deve morire perché si è deciso che non esiste.

Su questa base i giorni del Cristianesimo e della Chiesa Cattolica sono contati. Parlare di mistero trinitario non è più possibile, albeggia il deismo (pensare Dio con la sola ragione a prescindere dalla rivelazione divina), nascono le logge massoniche con il loro Dio Architetto dell’universo che è poi il dio cartesiano che dà un giro di manovella al mondo, e poi lo lascia funzionare meccanicamente come un grande giroscopio eterno. 

Nel mondo della “Ratio calculatoria”, della ratio scientifica, nel mondo di Newton non c’è più spazio per Dio, per il Vangelo, per la Fede. Dove la ragione, così mutilata non può più coniugarsi con la fede, che fede ci è possibile? Solo una fede ridotta a sentimento, a consolazione. Fede in un Dio tappabuchi a cui si ricorre quando la scienza non risolve una sofferenza, una paura, una disgrazia.


Vico vede la debolezza di questa “Ratio calculatoria” e così Leibniz che è l’unico filosofo seicentesco che studia seriamente la scolastica e san Tommaso d’Aquino (lui che è protestante), che difende Aristotele, sottolineando che è impossibile spiegare l’ente naturale, l’animale, la pianta, le cose, senza accettare il concetto di forma aristotelica.

Vico e Leibniz sviluppano un’idea nuova di ragione, sperimentale, problematica, capace di produrre comprensione anche di ciò che non è dimostrabile con i limiti della scienza moderna. Una nuova idea di verità sorge con Vico e con Leibniz che dimostrano che la verità della scienza moderna è una falsa verità che si ferma solo alla superfice dei fenomeni a partire dai quegli stessi fenomeni che sa spiegare così bene, ma che non è in grado di penetrarne l’intima essenza. 

“Solo la ragione creatrice conosce veramente gli enti che ha creato”, “Verum ipsum factum”. È vero in ultima istanza ed in senso metafisico solo ciò che è fatto dal soggetto che conosce. Il soggetto conosce veramente ciò che il soggetto stesso produce.


L’uomo non può conoscere neppure se stesso in modo metafisico, in modo radicale, in modo risolutivo, ma può conoscere ciò che fa: la storia, la poesia, l’arte, il mito, la favola, il folclore, i costumi, gli usi. Queste sono le cose nelle quali l’uomo è effettivamente “faber”, demiurgo, creatore. Di queste cose è possibile una nuova scienza, che Vico fonda. 

Vico non è uno storico, ma è il primo teorico realizzatore della scienza della storia, che capisce cioè che la storia è una scienza e non solo un racconto e che ha delle leggi che possono essere conosciute e dominate e presidiate sul piano metodologico in modo rigoroso.

Storia si è sempre fatta, pensiamo a Tacito, Erodoto, Livio, Tucidite, ecc. ma non si è mai fatto storia pensando alla storia come ad una scienza. Vico capisce che la storia ha dignità di scienza, ma addirittura dignità di scienza suprema. Nulla è così vero come il dato storico. 

Solo nella storia l’uomo conoscendo si avvicina, sia pure solo in parte e solo per analogia, a Dio. Perché la storia la fa l’uomo, la fanno gli uomini e gli uomini la possono comprendere molto più in profondità di come possono comprendere la natura che non è fatta dall’uomo. Vico anticipa così una scienza che non esisteva.

Tutta la filosofia idealistica, quella romantica, lo storicismo romantico, il neoidealismo italiano e i filosofi della scienze dello spirito che seguiranno si rifaranno alle teorie vichiane richiamandole e mostrando, sulla scia di Vico, che io posso o SPIEGARE o COMPRENDERE. 

Spiegare, cioè in termini causalistici e meccanicamente, la causa che produce un effetto, la scienza esatta, la scienza della natura, o comprendere a partire da un’empatia originaria con ciò che devo comprendere. Una poesia di Leopardi non la spiego, la comprendo. Il funzionamento dell’acido cloridrico lo spiego, non lo comprendo.

Tra lo spiegare e il comprendere la cosa più nobile è il comprendere che appartiene alla scienza dello spirito. Scienza che si preoccupa di capire che senso ha la nostra vita gioiosa o sofferente su questa terra e che produce forme culturali per dare spiegazione di questo bisogno di senso del vivere.

Il verosimile

“Il Verosimile è ciò che è vero senza che io possa dimostrare che è vero”. (G.B. Vico)
Da questa definizione possiamo trarre queste deduzioni, che sono anche il commento finale a Vico e a Pascal. Non c’è una spiegazione scientifica per la madre che, per salvare la vita del figlio che ha nel grembo, rinuncia alla sua propria vita. Nessuno è in grado di dimostrare la ragionevolezza di questa scelta. 

Venendo ai nostri giorni. Vediamo che sta passando tutto sul piano bioetico e, anche se può sembrare una pesante esagerazione, che tale purtroppo non è, ci sono oggi, molto più di ieri, Lobby di potere che premono per liberalizzare l’incesto, la pedofilia, la poligamia, la scelta del proprio sesso, il matrimonio fra Gay e fra Lesbiche, l’adozione di figli da parte degli stessi, il matrimonio con animali, l’uso di droghe, ecc. che hanno a disposizione centinaia di milioni di dollari, decine di riviste, professori universitari, intellettuali, scrittori, filosofi, magnati, giudici e politici dalla loro parte e nessuno, dico nessuno è in grado di dimostrare che queste cose sono male, per l’uomo e per la società, tanto è vero che continuano ad avanzare e a prendere piede nelle decisioni di chi è al potere e di chi è in grado di legiferare in merito.

Noi sappiamo che sono male, ma non siamo in grado di dimostrarlo. Le cose più profonde, le cose più belle, le cose più umane, le cose più vere, le cose più antiche, le cose più strazianti, le cose per le quali val la pena di vivere, non si possono dimostrare. Non posso dimostrare perché piango davanti alla bara di un amico, ma piango. Non posso dimostrare con la Ratio calculatoria o con la fisica o con la psichiatria o con la medicina, che l’incesto è male, ma so che è male.

Siamo cioè abitati da un sapere che Pascal vede essere presente particolarmente nel popolo e nelle persone semplici anche se non sanno di averle. Il vero ci abita originariamente perché è la legge di natura che Dio scolpisce nel cuore di ogni uomo. Questa legge palpita nel cuore dell’uomo e lo appaga quando l’uomo la osserva o lo tormenta quando la soffoca. 

Prendiamo un eventuale adolescente che pur giovanissimo ha già provato tutto, che ha già violato ogni confine, che ha già visto tutto, anche cose che non avrebbe dovuto vedere, che ha assaporato ogni tipo di vizio, ebbene anche in quel cuore esiste una legge di natura, luminosa, invincibile che pulsa segretamente e si manifesta rendendo triste e inappagata la vita chi non la onora e non la segue, sempre pronta però a ribaltare la situazione al primo cenno di ravvedimento. È questo in sostanza il pensiero di Vico. 

“Non può che scivolare nella barbarie una civiltà che perde Dio” e che quindi rende molto più difficile la sopravvivenza della legge di natura nell’animo dell’uomo.

Vico conosceva bene la storia e vedeva come l’apostasia, l’idolatria, il politeismo, i vizi pubblici e privati portano poi ad una punizione come la tirannia, l’invasione di popoli stranieri, la rovina e il ritorno alla barbarie più estrema, lo smontaggio della civiltà fino all’ultima pietra. Come affrontare tutto questo che abbiamo già sperimentato nel secolo scorso con le guerre mondiali e le loro stragi devastanti e oggi con le migrazioni di massa e le barbarie di gruppi terroristici fuori da ogni controllo?

Se vogliamo essere fedeli a Pascal e a Vico dovremmo lasciare che il fuoco d’amore che Gesù ha tanto desiderato che potesse incendiare il cuore dell’uomo faccia il suo corso. Lasciare cioè che quel fuoco entri nel nostro povero cuore di miseri grandi, di grandi miseri e lasciare che quel fuoco divori tutto il nostro grande e misero cuore. 

Soffocare il male in una sovrabbondanza di bene. (Pascal – Il memoriale).

(di Massimo Introvigne, Corriere della Sera, giovedì 25 novembre 2010, inserto Sette, numero 47, p. 26)

Pascal è diventato un autore frequentemente citato dai Papi, da Paolo VI a Benedetto XVI passando per Giovanni Paolo II. Papa Ratzinger lo definisce in un discorso del 3 dicembre 2008 – né si tratta del solo riferimento – “grande pensatore”, capace di vedere contro ogni eccessivo ottimismo della ragione l’importanza del peccato originale, il “potere del male nelle nostre anime”, un “fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana”. Il Papa libera implicitamente Pascal dalle accuse secondo cui l’autore dei Pensieri negherebbe la bontà originaria della natura umana. Ma, spiega Benedetto XVI, Pascal fu capace di vedere una “seconda natura”, che erroneamente “fa apparire il male come normale per l’uomo” e che “si sovrappone alla nostra natura originaria, buona”. La posta in gioco è enorme, e spiega i frequenti riferimenti a Pascal e ai Pensieri di Papa Ratzinger e dei suoi immediati predecessori. Si tratta infatti del giudizio della Chiesa sulla modernità. Lo stesso Benedetto XVI ha parlato nel viaggio in Portogallo degli “errori e vicoli senza uscita” in cui la modernità si è infilata. Altrove – nell’enciclica Spe salvi del 2007, e non solo – ha descritto l’itinerario degli errori della modernità, in un modo non dissimile da autori della scuola contro-rivoluzionaria come il brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira, come la sequenza che va da Lutero all’illuminismo anticlericale, alle ideologie del XX secolo e al nichilismo contemporaneo. Ma questa è tutta modernità? Qui si gioca anche un’altra partita, dove c’entra Pascal e che è carissima a Benedetto XVI: l’interpretazione del Concilio Ecumenico Vaticano II. […].

[…] Certo, la linea “buona” della modernità, di cui Pascal è un momento essenziale, rimane minoritaria. Ma per Benedetto XVI questa è la vera linea del Vaticano II. Il Papa critica così – le espressioni sono sue – sia gli “anticonciliaristi” che vorrebbero una Chiesa chiusa alle istanze della modernità, sia i “progressisti” che attribuiscono al Concilio anche le risposte ideologiche moderne. Se è così, Pascal e i suoi Pensieri restano di grande attualità per capire l’odierna stagione della Chiesa Cattolica.

L’Apologetica di Pascal
Roberto Nava (1950 – 2015) - Storico

Il punto di partenza dell’apologetica di Pascal (il cogito di Pascal) è la costatazione della dualità della natura umana: l’uomo è allo stesso tempo un ammasso di miseria e di grandezza. L’uomo è un re decaduto, ma sempre un re. L’uomo è una fragile canna, ma una canna pensante. L’uomo è un insieme di bene e di male, degno ad un tempo di stima e di disprezzo. 

1. Al dualismo cartesiano del pensiero e dell’estensione, Pascal oppone il dualismo della grandezza e della miseria. 

2. Al dubbio metodico di Cartesio, Pascal oppone una totale sfiducia nella ragione per quanto riguarda la salvezza eterna, che “non si trova che per le vie insegnate dal Vangelo. […] Non si conserva se non per le vie insegnate nel Vangelo. […] Completa sottomissione a Gesù Cristo […]”. 

3. La ragione, infatti, può rendersi conto della dualità che lacera la vita umana fino alle manifestazioni più intime, ma non può far nulla per superarle. Solo la fede cristiana può spiegare all’uomo l’origine di questa frattura e dargli la grazia di sanarla. Con questo Pascal non vuole, però, negare qualsiasi valore alla ragione. Egli non insegna il fideismo, come risulta chiaramente dall’uso abbondante che fa di argomenti razionali per difendere il cristianesimo. Così, per esempio, Pascal prova la verità del cristianesimo mostrando che il dogma del peccato originale è l’unica spiegazione sufficiente di tutti i mali che tormentano il mondo. Altrove prova l’esistenza di Dio applicando ad essa il calcolo delle probabilità. L’argomento in sostanza dice così: nessuno può sottrarsi al dilemma: Dio è o non è. E’ un problema di vita, non un problema puramente speculativo, perché bisogna agire o come se Dio esistesse, o come se non esistesse. La neutralità è impossibile: “Scommettere bisogna; non è nostro arbitrio; siete obbligato; quale via dunque prenderete?[…]. Come si è già visto se si vince, si guadagna tutto; se si perde, non si perde nulla. Non resta che scommettere che Dio è, senza esitare” […].

4. Da questo argomento e dall’intonazione generale della filosofia di Pascal risulta che più che opporre la ragione al cuore, egli intende integrare la ragione col cuore; più che negare valore alla dimostrazione, egli intende completare con la dimostrazione dialettica quella deduttiva.

Aula Paolo VI Mercoledì, 3 dicembre 2008 (con riferimenti a Pascal e alla sua visione del peccato originale)

Da Adamo a Cristo: dal peccato (originale) alla libertà.

"Cari fratelli e sorelle, nell'odierna catechesi ci soffermeremo sulle relazioni tra Adamo e Cristo, delineate da san Paolo nella nota pagina della Lettera ai Romani (5,12-21), nella quale egli consegna alla Chiesa le linee essenziali della dottrina sul peccato originale. In verità, già nella prima Lettera ai Corinzi, trattando della fede nella risurrezione, Paolo aveva introdotto il confronto tra il progenitore e Cristo: “Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita... Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (1 Cor 15,22-45). Con Rm 5,12-21 il confronto tra Cristo e Adamo si fa più articolato e illuminante: Paolo ripercorre la storia della salvezza da Adamo alla Legge e da questa a Cristo. Al centro della scena non si trova tanto Adamo con le conseguenze del peccato sull'umanità, quanto Gesù Cristo e la grazia che, mediante Lui, è stata riversata in abbondanza sull'umanità. La ripetizione del “molto più” riguardante Cristo sottolinea come il dono ricevuto in Lui sorpassi, di gran lunga, il peccato di Adamo e le conseguenze prodotte sull'umanità, così che Paolo può giungere alla conclusione: “Ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia” (Rm 5,20). Pertanto, il confronto che Paolo traccia tra Adamo e Cristo mette in luce l’inferiorità del primo uomo rispetto alla prevalenza del secondo. D’altro canto, è proprio per mettere in evidenza l'incommensurabile dono della grazia, in Cristo, che Paolo accenna al peccato di Adamo: si direbbe che se non fosse stato per dimostrare la centralità della grazia, egli non si sarebbe attardato a trattare del peccato che “a causa di un solo uomo è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte” (Rm 5,12). Per questo se, nella fede della Chiesa, è maturata la consapevolezza del dogma del peccato originale è perché esso è connesso inscindibilmente con l’altro dogma, quello della salvezza e della libertà in Cristo. La conseguenza di ciò è che non dovremmo mai trattare del peccato di Adamo e dell’umanità in modo distaccato dal contesto salvifico, senza comprenderli cioè nell’orizzonte della giustificazione in Cristo. Ma come uomini di oggi dobbiamo domandarci: che cosa è questo peccato originale? Che cosa insegna san Paolo, che cosa insegna la Chiesa? È ancora oggi sostenibile questa dottrina? Molti pensano che, alla luce della storia dell'evoluzione, non ci sarebbe più posto per la dottrina di un primo peccato, che poi si diffonderebbe in tutta la storia dell'umanità. E, di conseguenza, anche la questione della Redenzione e del Redentore perderebbe il suo fondamento. Dunque, esiste il peccato originale o no? Per poter rispondere dobbiamo distinguere due aspetti della dottrina sul peccato originale. Esiste un aspetto empirico, cioè una realtà concreta, visibile, direi tangibile per tutti. E un aspetto misterico, riguardante il fondamento ontologico di questo fatto. Il dato empirico è che esiste una contraddizione nel nostro essere. Da una parte ogni uomo sa che deve fare il bene e intimamente lo vuole anche fare. Ma, nello stesso tempo, sente anche l'altro impulso di fare il contrario, di seguire la strada dell'egoismo, della violenza, di fare solo quanto gli piace anche sapendo di agire così contro il bene, contro Dio e contro il prossimo. San Paolo nella sua Lettera ai Romani ha espresso questa contraddizione nel nostro essere così: «C'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (7, 18-19). Questa contraddizione interiore del nostro essere non è una teoria. Ognuno di noi la prova ogni giorno. E soprattutto vediamo sempre intorno a noi la prevalenza di questa seconda volontà. Basta pensare alle notizie quotidiane su ingiustizie, violenza, menzogna, lussuria. Ogni giorno lo vediamo: è un fatto. Come conseguenza di questo potere del male nelle nostre anime, si è sviluppato nella storia un fiume sporco, che avvelena la geografia della storia umana. Il grande pensatore francese Blaise Pascal ha parlato di una «seconda natura», che si sovrappone alla nostra natura originaria, buona. Questa “seconda natura” fa apparire il male come normale per l'uomo. Così anche l'espressione solita: «questo è umano» ha un duplice significato. «Questo è umano» può voler dire: quest'uomo è buono, realmente agisce come dovrebbe agire un uomo. Ma «questo è umano» può anche voler dire la falsità: il male è normale, è umano. Il male sembra essere divenuto una seconda natura. Questa contraddizione dell'essere umano, della nostra storia deve provocare, e provoca anche oggi, il desiderio di redenzione. E, in realtà, il desiderio che il mondo sia cambiato e la promessa che sarà creato un mondo di giustizia, di pace, di bene, è presente dappertutto: in politica, ad esempio, tutti parlano di questa necessità di cambiare il mondo, di creare un mondo più giusto. E proprio questo è espressione del desiderio che ci sia una liberazione dalla contraddizione che sperimentiamo in noi stessi. Quindi il fatto del potere del male nel cuore umano e nella storia umana è innegabile. La questione è: come si spiega questo male? Nella storia del pensiero, prescindendo dalla fede cristiana, esiste un modello principale di spiegazione, con diverse variazioni. Questo modello dice: l'essere stesso è contraddittorio, porta in sé sia il bene sia il male. Nell'antichità questa idea implicava l'opinione che esistessero due principi ugualmente originari: un principio buono e un principio cattivo. Tale dualismo sarebbe insuperabile; i due principi stanno sullo stesso livello, perciò ci sarà sempre, fin dall'origine dell'essere, questa contraddizione. La contraddizione del nostro essere, quindi, rifletterebbe solo la contrarietà dei due principi divini, per così dire. Nella versione evoluzionistica, atea, del mondo ritorna in modo nuovo la stessa visione. Anche se, in tale concezione, la visione dell'essere è monistica, si suppone che l'essere come tale dall'inizio porti in se il male e il bene. L'essere stesso non è semplicemente buono, ma aperto al bene e al male. Il male è ugualmente originario come il bene. E la storia umana svilupperebbe soltanto il modello già presente in tutta l'evoluzione precedente. Ciò che i cristiani chiamano peccato originale sarebbe in realtà solo il carattere misto dell'essere, una mescolanza di bene e di male che, secondo questa teoria, apparterrebbe alla stessa stoffa dell'essere. È una visione in fondo disperata: se è così, il male è invincibile. Alla fine conta solo il proprio interesse. E ogni progresso sarebbe necessariamente da pagare con un fiume di male e chi volesse servire al progresso dovrebbe accettare di pagare questo prezzo. La politica, in fondo, è impostata proprio su queste premesse: e ne vediamo gli effetti. Questo pensiero moderno può, alla fine, solo creare tristezza e cinismo".

"E così domandiamo di nuovo: che cosa dice la fede, testimoniata da san Paolo? Come primo punto, essa conferma il fatto della competizione tra le due nature, il fatto di questo male la cui ombra pesa su tutta la creazione. Abbiamo sentito il capitolo 7 della Lettera ai Romani, potremmo aggiungere il capitolo 8. Il male esiste, semplicemente. Come spiegazione, in contrasto con i dualismi e i monismi che abbiamo brevemente considerato e trovato desolanti, la fede ci dice: esistono due misteri di luce e un mistero di notte, che è però avvolto dai misteri di luce. Il primo mistero di luce è questo: la fede ci dice che non ci sono due principi, uno buono e uno cattivo, ma c'è un solo principio, il Dio creatore, e questo principio è buono, solo buono, senza ombra di male. E perciò anche l'essere non è un misto di bene e male; l'essere come tale è buono e perciò è bene essere, è bene vivere. Questo è il lieto annuncio della fede: c'è solo una fonte buona, il Creatore. E perciò vivere è un bene, è buona cosa essere un uomo, una donna, è buona la vita. Poi segue un mistero di buio, di notte. Il male non viene dalla fonte dell'essere stesso, non è ugualmente originario. Il male viene da una libertà creata, da una libertà abusata. Come è stato possibile, come è successo? Questo rimane oscuro. Il male non è logico. Solo Dio e il bene sono logici, sono luce. Il male rimane misterioso. Lo si è presentato in grandi immagini, come fa il capitolo 3 della Genesi, con quella visione dei due alberi, del serpente, dell'uomo peccatore. Una grande immagine che ci fa indovinare, ma non può spiegare quanto è in se stesso illogico. Possiamo indovinare, non spiegare; neppure possiamo raccontarlo come un fatto accanto all'altro, perché è una realtà più profonda. Rimane un mistero di buio, di notte. Ma si aggiunge subito un mistero di luce. Il male viene da una fonte subordinata. Dio con la sua luce è più forte. E perciò il male può essere superato. Perciò la creatura, l'uomo, è sanabile. Le visioni dualiste, anche il monismo dell'evoluzionismo, non possono dire che l'uomo sia sanabile; ma se il male viene solo da una fonte subordinata, rimane vero che l'uomo è sanabile. E il Libro della Sapienza dice: “Hai creato sanabili le nazioni” (1, 14 volg). E finalmente, ultimo punto, l’uomo non è solo sanabile, è sanato di fatto. Dio ha introdotto la guarigione. È entrato in persona nella storia. Alla permanente fonte del male ha opposto una fonte di puro bene. Cristo crocifisso e risorto, nuovo Adamo, oppone al fiume sporco del male un fiume di luce. E questo fiume è presente nelle storia: vediamo i santi, i grandi santi ma anche gli umili santi, i semplici fedeli. Vediamo che il fiume di luce che viene da Cristo è presente, è forte. Fratelli e sorelle, è tempo di Avvento. Nel linguaggio della Chiesa la parola Avvento ha due significati: presenza e attesa. Presenza: la luce è presente, Cristo è il nuovo Adamo, è con noi e in mezzo a noi. Già splende la luce e dobbiamo aprire gli occhi del cuore per vedere la luce e per introdurci nel fiume della luce. Soprattutto essere grati del fatto che Dio stesso è entrato nella storia come nuova fonte di bene. Ma Avvento dice anche attesa. La notte oscura del male è ancora forte. E perciò preghiamo nell'Avvento con l'antico popolo di Dio: «Rorate caeli desuper». E preghiamo con insistenza: vieni Gesù; vieni, dà forza alla luce e al bene; vieni dove domina la menzogna, l'ignoranza di Dio, la violenza, l'ingiustizia; vieni, Signore Gesù, dà forza al bene nel mondo e aiutaci a essere portatori della tua luce, operatori della pace, testimoni della verità. Vieni Signore Gesù!".

La Rivoluzione moderna
·     PRESENTAZIONE




























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